La morte, che il nostro inconscio riusciva tanto efficacemente a tenere fuori dai nostri pensieri abituali, ha fatto irruzione nel nostro mondo privato e pubblico, portata dal coronavirus, che si è impossessato dei nostri destini causandoci lutti, sofferenze e scelte difensive estreme.
Eccoci dunque a dover fare il lutto anche del nostro consueto modo di vivere, dagli aspetti più intimi e individuali a quelli più sociali e collettivi. Abbiamo perso la concretezza di ciò che è ovvio, dello sfondo sensoriale che percepiamo e respiriamo senza accorgercene in ogni momento della nostra vita. Ciò che era scontato, e che dunque sembrava destinato a restare tale, improvvisamente si è rivelato effimero: ne avvertiamo l’assenza, ma al dolore si affianca la sensazione che forse se ne poteva fare a meno, con la necessità di rivedere i propri valori e priorità. La nevrosi traumatica è all’ordine del giorno, ma anche le più diverse torsioni di sofferenze e patologie preesistenti, in meglio o in peggio.
Le relazioni familiari sono particolarmente messe alla prova dal nuovo regime di vita, che da una parte separa inesorabilmente, dall’altra comprime nella condivisione continuativa dello stesso spazio domestico. Ognuno si gioca le proprie risorse, solitarie o relazionali, con effetti estremamente differenziati e a volte insperabilmente creativi, ma sicuramente con il rischio che la tenuta dei legami di coppia e familiari non resista a un carico di tensioni mai sperimentato prima.
Per noi analisti le sedute a distanza in tali circostanze non sono una scelta, l’unica alternativa è interrompere il lavoro con i pazienti. Ma non è questo l’unico elemento che cambia catastroficamente la relazione paziente/i-analista, quello principale è il contesto traumatico, nel senso di un trauma attuale e continuativo, in cui tutti siamo immersi e lavoriamo. In più, pazienti e analisti soffrono della stessa deprivazione della ricchezza sensoriale dell’incontro diretto, in carne ed ossa, costretti ad assolutizzare il canale sonoro, solo in parte sostenuto da quello visivo.
Alcuni pazienti accettano e altri no, perché? Forse è una manifestazione di transfert negativo, caratterizzato da proiezioni aggressive sull’analista? Che criteri abbiamo per scegliere il mezzo di comunicazione da usare? (telefono, skype, zoom, whatsapp o altro) e nella specificità del lavoro con le coppie e con le famiglie? Per il momento sembra prevalere una decisione comune, che responsabilizza i pazienti rispetto alla definizione del setting più di quanto eravamo abituati.
Oltre a questa ed altre simmetrie, una nuova asimmetria si crea fra noi e i pazienti: se loro sono deprivati dell’esperienza di entrare nel nostro studio, a noi si apre invece la casa che dai loro racconti ci eravamo immaginata diversa. Nelle sedute con le coppie e le famiglie ci giungono gli echi di cambiamenti catastrofici all’interno dei legami familiari: alla concretezza delle interazioni con cui siamo abituati a lavorare, si aggiunge quella del loro ambiente quotidiano, sia pur trasformato dagli eventi. La casa, che attraverso la sua organizzazione dello spazio rappresenta e/o concretizza i legami familiari, diventa elemento necessario del setting terapeutico. Scopriamo, nostro malgrado, tracce di altro e di altri che non avremmo voluto conoscere: ma anche gli oggetti, l’arredamento, per non parlare degli animali domestici, ci aprono lo sguardo sull’inconscio dei soggetti e dei legami intersoggettivi. Ci sono pazienti che si fanno trovare seduti davanti all’unica parete bianca che hanno trovato in tutta la casa, e altri che ci “ricevono” in pigiama, o ruotano la videocamera per seguire gli spostamenti di un bambino che gattonando s’infila dappertutto.
Il tempo assume nuove conformazioni, sia perché a volte dobbiamo cambiare gli orari delle sedute per renderle compatibili con le organizzazioni familiari, sia perché il trauma non ha tempo, e il lavoro psichico, basato sul tempo dell’après coup, può rivelarsi impossibile. Forse tutto quello che stiamo facendo e che continueremo a fare potrà essere pienamente compreso soltanto a posteriori, ma sicuramente sarà il funzionamento inconscio, caratterizzato dal tempo dell’après coup, a significarlo per ognuno di noi e per ognuno dei gruppi di cui facciamo parte. Forse quello che facciamo oggi avrà valore soltanto se riesce a evitare l’arresto del tempo e del pensiero, e l’incistamento di un trauma irrappresentabile con ricadute imprevedibili e anche transgenerazionali.